"RITI e TRADIZIONI LENTINESI"
All’Archeoclub di Lentini
Sabato 22 novembre 2014, nel salone delle feste del Sant’Alphio Palace Hotel di Lentini, organizzato dall’Archeoclub cittadino, ha avuto luogo un gradevolissimo incontro per parlare di “Riti e Tradizioni Lentinesi”, in gran parte ormai scomparsi e, sicuramente, poco conosciuti dai nostri giovani.
Ha aperto la serata la presidente prof.ssa Maria Arisco con i rituali saluti ai convenuti, agli ospiti tra cui i presidenti o rappresentanti dei Clubs e delle Associazioni culturali locali - Fidapa, Lyons, Rotary, Sicilia Antica Lentini Carlentini – e ai soci intervenuti, come sempre, molto numerosi. Ha salutato con affetto il relatore dott. Francesco Valenti, un grande amico – ha tenuto per l’Archeoclub molte conferenze – ringraziandolo per la grande disponibilità; una persona, anzi, un personaggio, molto noto nella nostra città e non solo, per i suoi studi e i lavori di ricerca, con all’attivo numerose pubblicazioni riguardanti, soprattutto, la storia e l’archeologia di Lentini e del suo territorio, e della Sicilia. Attualmente ricopre il prestigioso incarico di Responsabile per la formazione dei Quadri Dirigenti Distrettuali del Kiwanis, con impegni che lo portano spesso all’estero. Ha, quindi, ceduto la parola al relatore che, dopo aver ringraziato la presidente e il pubblico per l’affettuosa accoglienza, si è immerso nell’affascinante panorama dei riti e delle tradizioni della nostra città, che fanno da contorno alle feste religiose e non:ci ha portato indietro nel tempo per ricordare consuetudini che si stanno perdendo, che in gran parte sono scomparse e che, comunque, sono poco note o del tutto sconosciute dai giovani.
Le tradizioni lentinesi, ha esordito il relatore, specie quelle che si accompagnano alle feste religiose, non si discostano molto da quelle che esistono in tutta la Sicilia, ma ce ne sono alcune che sono tipicamente lentinesi.
E così, servendosi di immagini proiettate su schermo, con l’accattivante eloquio, intercalato da battute ironiche e spesso graffianti, che contraddistinguono sempre i suoi interessantissimi interventi, ci ha raccontato i riti e le tradizioni che fanno da contorno alle varie feste religiose, distribuite nell’arco dell’anno, partendo dalla festa dell’Immacolata dell’8 dicembre che ormai si festeggia solo nella chiesa a Lei dedicata.
Nel passato, invece, si celebrava con una processione in pompa magna, preceduta da alcune persone che, munite di scopa, pulivano per benino la strada: la Madonna, pura ed immacolata, non poteva passare su una strada sporca. Il rito veniva anche interpretato come un invito ad andare a confessarsi per “pulire” l’anima.
Complessi e molto articolati i riti e le usanze, legate alla ricorrenza del Natale, a cominciare dalle tradizionali “novene” che iniziano il 16 dicembre e terminano il giorno della vigilia.
La ”novena”, nel passato una per ogni quartiere, è una sorta di altarino, realizzato sul muro di facciata di una casa, composto dal quadro della Sacra Famiglia sormontato da una corona di “spini pulici” (asparago selvatico) con fiocchi di cotone idrofilo, a rappresentare la neve, tutt’attorno addobbato con frutta di stagione – arance, mandarini, limoni, ”bastarduni” (ficodindia), “ranata” (melograni), “muluni di ciauru” (meloni), “passiluna” (grappoli di uva passita), e sorretto da una mensola sulla quale vengono posizionati tre lumini a olio galleggiante su soluzioni colorate. Ogni giorno davanti alla “novena” venivano recitate delle cantilene, con l’accompagnamento di musicanti, che si concludevano con un bicchiere di vino, offerto loro dalle donne, e con gli scoppiettanti “tric trac” (castagnole) che divertivano i ragazzini che, immancabilmente, si accodavano. Nel tempo sono subentrati gli zampognari.
Un’altra tradizione, ancora in uso, la cena della vigilia “a sira a cena”, che si consumava generalmente presso la casa dei genitori; ognuno dei famigliari contribuiva portando un “piatto” tipico: “u cudduruni cc’anciti o cche brocculi niuri”(focaccia ripiena con bietole selvatiche o broccoli neri), “u baccalaru” (baccalà), “i pipi sicchi” (peperoni secchi), “i sfingi cca ricotta o cc’angiovi” (acciughe), “a ‘ngidda do Buveri” (l’anguilla del Biviere) che non doveva mai mancare come il torrone, e “a calia” (frutta secca abbrustolita) per completare il cenone; la serata proseguiva fino alla mezzanotte e oltre con una tombolata dove i numeri delle cartelle venivano segnati con le bucce di mandarino: troppo preziosi i fagioli per essere sciupati!
Una festa particolarmente sentita era il carnevale che si festeggiava con tre giorni di mascherate: le donne con i vestiti dei mariti e gli uomini con i vestiti delle mogli. Soprattutto veniva festeggiato “u carnaluvaruni”, giorno delle ceneri e primo giorno di Quaresima: si andava a Ciricò per abbuffarsi di salsiccia e altre gustose e, per quel giorno, “proibite” vivande, per ballare e per divertirsi. L’usanza non è scomparsa. Oggi si va nelle seconde case, in campagna o al mare, per fare le stesse cose di una volta!
Il 19 marzo è la festa di San Giuseppe che si festeggia a tutt’oggi in una forma più “civile” ma sempre rispettosa delle tradizioni grazie all’attenta cura del prof. Elio Cardillo. I riti più caratteristici: la lunga tavolata dei 99 piatti, con le tipiche pietanze lentinesi, imbandita nella Chiesa della Fontana; la tradizionale processione, accompagnata dalla banda musicale, che parte dalla chiesa dell’Immacolata, percorre una parte del “giro santo”, via Conte Alaimo e termina in piazza Umberto I dove è stato allestito il Palco per la Sacra Famiglia e dal quale viene effettuata la vendita all’asta dei numerosi doni tra cui “i cudduri di San Giuseppi” (ciambelle del tipico pane casereccio). Un tempo i personaggi della Sacra Famiglia venivano scelti tra i più poveri della città, oggi sono impersonati da cittadini volontari e le offerte in denaro e i proventi della vendita all’asta dei doni vengono devoluti in beneficenza.
Numerosi e particolari erano i riti collegati alla Santa Pasqua; molti sono scomparsi e quelli rimasti sono diventati più semplici e meno fastosi. Molto spettacolare e, soprattutto, molto seguita era la processione del Venerdì Santo preceduta dalla lunga funzione religiosa che si svolgeva nella Chiesa Madre e culminava con la deposizione del Crocifisso dalla Croce “a scisa a Cruci”. Alla lunga processione partecipavano tutte le Confraternite, ognuna munita di stendardo, che precedevano i Canonici in pompa magna e la portantina, con il corpo del Cristo Morto, seguita dalla banda musicale e da un affollatissimo corteo di fedeli. Molto caratteristico lo scioglimento della coda del fastoso mantello color porpora dei Canonici, “a jttata da cura” che aveva luogo alla “Potta Aci” ; la lunga coda veniva trascinata lungo la via Regina Margherita fino alla Piazza e alla Chiesa Madre sotto lo sguardo dei numerosi curiosi. Altro rito, ormai scomparso, che il relatore ha ricordato, avveniva a mezzogiorno del Sabato Santo: “a cascata da tila”(la caduta del telo che copre il Cristo Risorto), accompagnato dal suono festoso delle campane di tutte le chiese della città. Le donne, al suono delle campane, uscivano dalle case buttando fuori grandi secchiate di acqua, per purificare. Era anche il momento di fare la “pace”, rito che veniva accompagnato dall’offerta delle cassatele di ricotta, tipico dolce pasquale, da cui deriva il detto popolare “e cu ‘nnappi ‘nnappi de cassati di Pasqua” (come dire dimentichiamoci del passato). La domenica mattina ai bambini si donava “u ciciliu” (una sorta di cestino di pane dolce con al centro un uovo) e in Piazza Umberto I la banda musicale in concerto eseguiva la Cavalleria Rusticana. Il giorno dopo si andava a Carlentini per assistere alla festa di ”San Giuseppi di Carruntini” e per mangiare il castrato arrostito.
Ci ha, poi, parlato, soffermandosi su interessanti e gustosi particolari, della fiera di San Giorgio, una delle più famose e antiche della Sicilia, che, fino agli inizi della seconda guerra mondiale, si svolgeva dal 18 al 21 aprile nella zona che, nei toponimi popolari, mantiene ancora il nome di “supra a fera” ; che va da Piazza degli Studi, a via Piave, alla “Villa a Badda” (villa Marconi), fino alla chiesa di Santa Croce. Serviva per la vendita e per l’acquisto di bestiame ed era circondata da una moltitudine di bancarelle che vendevano attrezzi da lavoro, utensili da cucina e tutto ciò che aveva attinenza con il bestiame e con l’agricoltura.
Non potevano mancare, in questo panorama di usanze lentinesi, i riti legati alla festa di San Alfio, o meglio dei Tre Santi Fratelli Martiri Alfio, Filadelfo e Cirino, che si festeggia il 9-10-11 maggio.
I vestiti di Sant’Alfio, i cappelli, le scarpe..; il primo gelato; i bambini offerti al Santo e spogliati sulla Vara, ancora in uso; il fuoco dei “pisciari” (pescivendoli) il pomeriggio del 10; “u iocu focu da Riliquia”; la passeggiata delle ragazze in cerca di marito e dei giovanotti in via Regina Margherita; il ballo al cinema La Ferla con le ragazze mascherate “i ‘ntuppateddi”, che “scuncicavunu” (importunavano bonariamente) i giovanotti preferiti, scomparso attorno al 1910 a causa di un fatto di cronaca nera. Una tradizione ancora molto seguita e densa di commozione è quella del “giru de nuri“ (giro dei nudi) della notte del 9 maggio: è un voto che moltissimi fedeli sciolgono come ringraziamento per una grazia ricevuta, e che nella tradizione vuole ricordare il fatto che i tre Santi, denudati, vennero portati in giro per la città trascinati da cavallini.
Ci ha ancora parlato dei riti legati all’Ascensione; delle usanze, in gran parte scomparse, legate al Corpus Domini con gli altarini, approntati in ogni quartiere dalle donne, con grande spirito agonistico, davanti ai quali la processione si fermava per consentire al parroco di turno di recitare delle preghiere e di benedire. Il tutto accompagnato “de bummi”.
Non ha tralasciato di raccontare le tradizioni legate alle nascite dei bambini: “a cummari do cuppuluni”, “u cumpari e San Giuvanni”, l’unico uomo-compare autorizzato ad entrare nella casa della puerpera anche in assenza del marito.
E, poi ancora, i riti che si accompagnavano alle morti…le donne che venivano pagate per piangere e sciorinare lodi per il defunto.. La medicina popolare…I “cunti” che le donne anziane del quartiere raccontavano ai bambini…I “Mustcheddi”…e tanto altro ancora.
Ha concluso il suo partecipatissimo incontro dicendo che i riti e le tradizioni dei quali ci aveva parlato fanno parte delle “piccole cose di una volta che davano soddisfazione e piacere” e costituiscono un bagaglio culturale che non dobbiamo dimenticare ma trasmettere alle nuove generazioni.
Un lungo applauso, accompagnato dagli affettuosi ringraziamenti della presidente e dei numerosi convenuti, ha chiuso l’interessante e divertente serata.