Jacopo da Lentini e la Scuola Siciliana
Serata dedicata a Jacopo da Lentini, venerdì 11 aprile, presso il Sant’Alphio Palace Hotel, organizzata dalla locale sezione dell’Archeoclub e dall’Associazione culturale “Natura sicula”. Relatori: Italo Giordano, archeologo, e Giuseppe Mascherpa, filologo e ricercatore presso l’Università di Pavia.
Jacopo nasce a Lentini intorno al 1210, ma trascorre quasi l’intero arco della sua vita a Palermo, “notaro” (Dante, Purgatorio, canto XXIV, v. 56) alla corte di Federico II di Svevia.
Palermo, tra l’XI e il XIII secolo (prima araba e poi normanna e sveva) è splendida capitale europea, crocevia di genti che in qualche modo sono legate alla storia della città, e la corte di Federico II è sicuramente il centro politico e culturale più interessante e vivace del tempo. Una corte sfarzosa, aperta e tollerante, dove convenivano dotti di ogni disciplina, di ogni razza, di ogni religione: cristiani, ebrei, musulmani, giuristi, astronomi, scienziati, filosofi, trovatori, giullari, attratti tutti dal fascino dell’imperatore, uomo colto e versatile, “stupor mundi” per la larghezza dei suoi modi e la modernità delle sue idee.
Sovrano accorto e intelligente, quasi precursore dei tempi, riuscì a creare in Sicilia e nell’Italia meridionale una struttura statale laica e liberale, del tutto nuova e moderna, fondata su un governo accentratore, che si avvaleva, tuttavia, con saggezza, della collaborazione di giuristi e burocrati, che rendevano efficiente con i loro servizi e la loro opera la macchina dello stato.
E’ a Palermo, nella Magna Curia di Federico II, che nasce la Scuola poetica siciliana, primo esempio di poesia d’arte in Italia. Funzionari, giudici, notai, cancellieri, segretari e lo stesso Federico II e i suoi figli, per puro diletto, con intenti esclusivamente artistici, ritenendo la poesia sincera e disinteressata espressione del sentimento, libera da ogni finalità pratica o educativa, religiosa o morale, compongono versi, ispirandosi alla già nota e diffusa poesia provenzale, che sicuramente conoscevano. I poeti siciliani, su quell’esempio, accogliendone specificatamente la tematica amorosa, celebrano l’amore cortese, ma adottano un linguaggio innovativo: non il volgare del popolo, ma il siciliano delle persone colte, purificato, certamente dirozzato, affinato dal loro buon gusto e levigato dalla conoscenza e dalla padronanza della lingua latina e delle sue regole, che diventa così “siciliano illustre”, gentile, distillato ed elegante, vera lingua poetica.
I loro meriti sono pertanto letterari e storici, perché se da una parte danno vita ad una “poesia d’arte”, che non è mai frutto di improvvisazioni, ma espressione di senso artistico, disciplina letteraria, cultura, gusto della bellezza, dall’altro creano e inventano una tecnica linguistica nuova, che costituisce il primo esempio di lingua poetica italiana.
A Odo e Guido delle Colonne, a Rinaldo d’Aquino, a Giacomino Pugliese, a Pier della Vigna, a Jacopo da Lentini, funzionari e poeti della corte di Federico II, il merito di aver promosso per primi la nascita della lingua letteraria italiana.
Ma è Jacopo il caposcuola e l’esponente più originale della Scuola poetica siciliana. La Scuola Siciliana – è certamente vero – mutua dalla poesia provenzale il tema dell’amore cortese, dell’amore-omaggio, inteso come servizio, fedeltà, in un rapporto di vassallaggio tra chi ama e chi è amato, e dove la donna, quasi sempre aristocratica castellana, appare gelida, austera, ritrosa, lontana e inaccessibile, oggetto di contemplazione, di lode, di sospiri, causa di turbamento e pena infinita.
Ma i siciliani, riprendendo questa lirica, le diedero l’impronta della diversa società in cui poetavano. La corte di Federico II era la corte moderna e laica di uno stato burocratico e accentrato, non più uno di quei castelli feudali nei quali quei sentimenti di devozione cavalleresca alla donna avevano trovato una loro sede naturale. Ne derivò che la poesia siciliana, trapiantando i motivi feudali-provenzali in un mondo che la feudalità aveva ignorato, li spogliò di quanto di vissuto era in essi, per trasformarli in temi poetici, in un’alta e chiusa esercitazione letteraria, che dava prestigio a chi la praticava. Una poesia elaborata e convenzionale, attraverso la quale il poeta non mirava a effondere affetti o a raccontare avvenimenti reali, ma solo a modulare con sapiente virtuosismo una tematica fissa.
Ma Jacopo va oltre, sa operare uno scarto nella direzione della originalità inventiva: la sua poesia si arricchisce spesso di preziose immagini, l’amore perde quasi totalmente il carattere feudale di vassallaggio, diventa sentimento interiore di chi ama (“Amor è uno desio che ven da core…”). L’immagine interiorizzata della donna appare sfiorata perfino da una luce angelica, un lontano preludio della donna-angelo dello Stilnovo. La Beatrice di Dante della Vita Nova, prima, e poi la Laura del Canzoniere del Petrarca ne saranno, quasi, un naturale svolgimento.
Jacopo compose circa 40 liriche, che attestano la sua fertilità poetica. Ma il suo magistero poetico è ancora più grande: creò il sonetto, realizzò lo schema della canzone, inventò la lirica d’arte, sperimentò per primo la poesia d’amore, dove spiritualità, sentimento, profondità psicologica mirabilmente si fondano.
I suoi versi, forse, per giustificato e naturale campanilismo, ancora oggi, a distanza di secoli, ci prendono e ci affascinano.