Lentini dopo l'11 gennaio 1693

Si è svolta giorno 11 gennaio, nei locali del saloncino Navarria di Via Murganzio, organizzata dall’Archeoclub di Lentini, la conferenza “Lentini dopo l’11 gennaio 1693”. Relatore il dott. Francesco Valenti, archeologo e attento studioso del nostro territorio, che, con un linguaggio semplice e accattivante, ma puntuale e qualificato, supportato dalla proiezione di numerose diapositive, ha raccontato i fatti (e i misfatti) che si susseguirono a Lentini, all’indomani del terremoto del 1693, allorquando si dovette affrontare il problema della ricostruzione della città.
Pubblico numeroso e attento. Vecchi e nuovi soci, simpatizzanti, autorità, ospiti, appassionati di archeologia hanno affollato la sala.
Il sisma del gennaio 1693, ha raccontato il relatore, distrusse a tappeto campagne e centri abitati della Sicilia sud-orientale. Lentini, che manteneva una struttura architettonica che risaliva all’età medievale, si sbriciolò e seppellì sotto le sue macerie 3.000 o forse 4.000 dei suoi abitanti. I superstiti si accamparono nella parte alta del vecchio sito, sul piano della fiera, dove eressero baracche e capanne di fortuna, che costituirono la prima forma di alloggiamento dopo il terremoto. La provvisorietà di tale sito, però, imponeva urgentemente la risoluzione del problema della ricostruzione, che subito apparve controversa.
Ricostruire sulle macerie del vecchio centro devastato o edificare altrove una nuova realtà urbanistica?
Si evidenziarono subito due partiti, frutto, più che di opinioni diverse, di interessi contrastanti.
Chi sosteneva che occorreva ricostruire nel vecchio sito pensava di poter salvaguardare sicure e collaudate posizioni di privilegio socio-economiche. Chi, invece, riteneva di potere, in una nuova collocazione urbanistica, rimuovere antichi svantaggi e creare nuove e migliori condizioni di vita, propugnava di costruire ex-novo, in un luogo diverso, la città. E’ il segno di una lacerazione, non certo nuova, del relativo tessuto sociale.
Don Giusepppe Lanza, duca di Camastra, vicario generale, preposto alla ricostruzione di Lentini dal vicerè Uzeda, dopo una serie di ricognizioni, vincendo l’opposizione politica, propone di ricostruire la città altrove e individua come nuovo sito il piano della fiera, in una zona aperta ed elevata. Il suggerimento del vicario trovò una forte opposizione nella volontà popolare, che addusse fondati e infondati motivi, come la mancanza d’acqua, la esposizione ai venti, l’insalubrità dell’aria, per cui la proposta cadde. Il duca di Camastra non demorde, incarica l’arch. Fra’ Angelo Italia, di chiara fama e dal curriculum professionale ricco e prestigioso, di individuare un nuovo sito con prerogative ben precise: vicino a sorgenti d’acqua potabile, non lontano dal Biviere e dal Caricatore di Agnone, importanti per l’economia lentinese, e moderatamente distante dalla costa per motivi di difesa. Il posto non poteva non essere che il poggio San Pietro, individuato oggi, attraverso moderni studi cartografici, lungo la strada per Francofonte, all’altezza del cosiddetto colle Roggio: ipotesi confermata dal cumulo di residui materiali da costruzione ancora ravvisabili. Nuove e inspiegabili opposizioni da parte della popolazione fecero naufragare il nuovo progetto e Lentini, perdendo un’occasione che le avrebbe consentito di rigenerarsi al meglio, tornò a rivivere nel vecchio sito.
Se la ricostruzione di città come Avola, Grammichele, Noto, città feudali, fu relativamente facile, veloce, innovativa, a Lentini, città demaniale, invece, apparve subito più lenta e travagliata. Sono soprattutto, infatti, le lacerazioni sociali a determinare l’impasse: quelle contrapposizioni, cioè, tra interessi di classi sociali da sempre opposte e divergenti, tra ecclesiastici e aristocratici, tra borghesi, artigiani e contadini, sospettosi gli uni degli altri e sempre pronti a fronteggiarsi, a frenare qualsiasi risoluzione innovativa.
Lentini perse così un’occasione importante di rinnovamento architettonico-urbanistico, ma soprattutto una possibilità di riscatto che una città nuova, nella struttura e nell’immagine, come è avvenuto poi con i centri barocchi della Val di Noto, avrebbe potuto assicurare.
“La Città dimenticata”, come la definisce il dott. Valenti, la città che doveva essere e non fu, rimase un’idea astratta, un progetto, e Lentini rinacque là dove era stata, così come era stata.
La mancanza di una vera e propria classe politica, l’assenza di una ricca e potente aristocrazia, il disinteresse dei nuovi ricchi, le lacerazioni interne del clero, la riottosità delle classi popolari produssero la decisione sicuramente meno coraggiosa e innovativa. Se Avola ricostruita appare come la città perfetta; se Noto incarnerà il trionfo del barocco siciliano; Lentini risorgerà con lo stesso disordine urbanistico che aveva caratterizzato la vecchia città medievale. Si raddrizzò qualche strada, si allargò qualche piazza, si costruì qualcosa di nuovo, ma nulla di più.
Lentini rimarrà quel borgo agricolo che era stato e poteva non essere più, riprendendosi quel ruolo e quella dimensione che la Leontìnoi greca all’inizio della sua storia aveva avuto.
La consapevolezza di ciò che Lentini è stata, quando nella Sicilia orientale contendeva il primato alla potente Siracusa e vinceva il confronto con Catania, ci incoraggia a a migliorarne l’aspetto e le funzioni e a riconsegnarla al nobile passato che le appartiene.